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EPISODIO 1 – Le Cadenze, il racconto della nostra vita, e come passare per James Bond

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di Susanna Quagliariello
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Come la musica può insegnarti il modo più giusto di dire le cose

Le Cadenze, il racconto della nostra vita, e come passare per James Bond

Trascrizione.
[00:08]
Stai ascoltando Sonar, Storie di Suoni.

Ciao, sono Susanna Quagliariello e insegno Composizione di Musica da Film, e questa è la prima puntata di un podcast che esplora i suoni e i modi in cui sono connessi alle nostre vite. Musica, rumori, voci, ogni suono ha una storia che ci riguarda. Oggi, per esempio, parleremo di cadenze…
… E qui ti aspettavi la seconda parte della frase.
Questo perché l’intonazione che ho usato, «Oggi parleremo di cadenze…» è un’intonazione che lasciava tutto in sospeso, per così dire, cioè ti faceva capire che c’era ancora qualcosa da aggiungere prima di finire la frase. Se con le stesse parole avessi usato un’altra intonazione, per esempio «Oggi parleremo di cadenze», in quel caso avresti capito che la frase era conclusa.
Ecco, questo è esattamente il modo in cui funzionano le cadenze in musica. Servono proprio a questo. Servono a far capire a chi ascolta un brano che una certa frase musicale ha ancora qualcosa da dire prima che sia finita… creando questo senso di sospensione che senti, oppure che, al contrario, la frase musicale è conclusa. 
E come vedi le cadenze riescono a fare tutto questo anche con soli due accordi. Un sistema che con poche note e in pochissimi istanti riesce a darti subito la sensazione che qualcosa è concluso oppure no. 


[01:48]

La cosa strana però è che siamo bravissimi a riconoscere il senso di sospensione e di conclusione quando lo sentiamo in musica, mentre quando parliamo spesso usiamo le intonazioni sbagliate, sbagliamo musica per così dire, e così facendo rischiamo di non farci capire oppure di dare un’impressione sbagliata di noi. Un esempio classico è quando ti presenti a un gruppo di persone che non conosci, colleghi nuovi oppure una commissione d’esame.
Immagina in questo contesto come ti presenteresti, dovendo soltanto salutare, dire come ti chiami e di che cosa ti occupi. Probabilmente quello che hai fatto – o che di sicuro hai sentito fare tantissime volte – è questo: “Ciao a tutti, sono Susanna, insegno musica”. Tarararara… un’intonazione a salire. 
Qual è il problema di questa intonazione?
È che è la stessa che usi nelle situazioni di incertezza o quando fai una domanda del tipo “Scusa, cosa hai detto?”. 
“Cosa hai detto?”, “Mi chiamo Susanna” è la stessa intonazione a salire. E il problema è proprio questo. Sto dicendo una serie di cose che dovrei sapere con certezza – come mi chiamo, il lavoro che faccio e così via –con l’intonazione che uso quando faccio una domanda. 


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Questo modo di parlare si chiama proprio uptalk, cioè “parlare verso su”. E può essere interpretato anche solo inconsapevolmente da chi ci ascolta come un sintomo di insicurezza o di mancanza di convinzione. 
Il motivo è molto semplice. Devi pensare all’intonazione come l’intenzione che esprimi: se esprimi un’intenzione di incertezza mentre stai dicendo cose che di sicuro conosci, questo scarto tra forma e contenuto, tra quello che stai dicendo e come lo stai dicendo, suonerà inevitabilmente strano a chi ti ascolta, e magari chi ti ascolta – anche senza sapere perché – avvertirà che c’è qualcosa che stride.
E questo effetto è provato da una vastissima letteratura di ricerche sul campo. In particolare c’è un sondaggio condotto nel maggio del 2025 tra 700 manager, secondo il quale il 70% di questi manager trova l’uptalk “irritante”, e l’85% lo considera “un chiaro indicatore di insicurezza”. Trovi i riferimenti bibliografici di questa ricerca e di tutte quelle che ti citerò sulla pagina del sito di Sonar.
Fare attenzione a questi aspetti può essere particolarmente importante in contesti specifici del lavoro, come i colloqui, in cui effettivamente il tuo nome, la tua professione, il saluto che fai a chi ti sta ascoltando fanno parte dei primissimi scambi, dei primi secondi di interazione. E sai come si dice: “Non c’è una seconda occasione per fare una buona prima impressione”. Quindi effettivamente l’intonazione che darai a queste tue primissime parole può essere davvero importante.

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L’uptalk è sicuramente presente nell’italiano, ma soprattutto in condizioni di incertezza come ti dicevo prima, cioè quando ci si sta presentando qualcuno con cui non si ha una particolare confidenza oppure in contesti in cui non abbiamo la persona di fronte, e quindi tendiamo ad essere un po’ tesi. 
Invece tra le popolazioni che parlano inglese è molto più diffuso. Per esempio è una delle caratteristiche del cosiddetto Valley Girl Accent, cioè l’”accento delle ragazze della San Fernando Valley”. 
E una caratteristica comune della uptalk – o upspeak – è proprio quella di essere usata più spesso dalle donne; e questo in alcuni studi di sociolinguistica è stato visto come un segnale che sono più spesso le donne ad avere atteggiamenti insicuri come questo. 

Nell’intervista che senti adesso, per esempio, c’è un’imprenditrice affermata che parla della sua attività imprenditoriale in campo medico e che, pur essendo una donna di successo, quando il discorso si sposta sulle motivazioni personali che l’hanno portata a scegliere il suo lavoro, quindi quando il discorso si fa più intimo, inizia a terminare praticamente ogni frase con questa coda interrogativa che va verso su.
“The other is because i see a lot of people suffering from diseases that they don’t understand and that annoying me they’re making worse. My one big example… one big example for me is people who have type two diabetes and a lot of…”

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Insomma: l’intonazione a salire alla fine di una frase rischia di indebolire la nostra credibilità.
Per fortuna però esiste un modo semplicissimo per correggere questa intonazione. Basta andare nella direzione opposta, cioè non salire ma scendere. E quindi passare dal “Ciao a tutti, sono Susanna” al “Ciao a tutti, sono Susanna”, che è un modo molto più tranquillo, sarai d’accordo, di parlare.

E questo stesso funzionamento vale per gli ambiti più diversi: vale al lavoro, vale per le nuove amicizie, vale anche quando lasciamo un vocale per un amico. Quante volte abbiamo lasciato o abbiamo ascoltato un vocale che cominciava con “Ciao Barbara, sono Susanna, e ti volevo dire che…”.

E vale anche quando vediamo un film. La prova del nove in questo è la presentazione di 007, di James Bond. Immagina se 007 si presentasse con l’intonazione sbagliata, con quella che va verso su. Uscirebbe fuori qualcosa come “Mi chiamo Bond, James Bond…” Ce lo vedi Sean Connery con lo smoking che si presenta in questo modo? 

Le parole sono esatte, non è una questione di contenuto, è una questione di forma. Ma è una forma che può rovinare il contenuto e ci fa un po’ sorridere un James Bond che si presenta così. All’improvviso non sembra più l’agente segreto di sua maestà, ma sembra più un impiegato del catasto, magari un bravissimo impiegato del catasto, ma non 007.
Qual è invece il modo in cui si presenta James Bond? Si presenta con la cadenza che dovremmo usare anche noi, la cadenza contraria, non in salita ma in discesa, in modo da passare da “Mi chiamo Bond, James Bond, a “Bond, James Bond”.
Pensa che la musica parte solo con l’intonazione giusta, e cioè con quel James più alto che cade sul Bond più basso. E non a caso cadenza, deriva dal latino cadere, che significa proprio cadere, perché segna il modo in cui una frase musicale cade nell’ultima parte.
Questo elemento di prosodia si comporta allo stesso modo sia in italiano che in inglese, per cui che parli Sean Connery, Roger Moore, Pierce Brosnan o tutti i loro corrispettivi doppiatori italiani, troverai sempre la stessa intonazione a scendere.
Who are you?
Bond. James Bond. My name’s Bond. James Bond. The name’s Bond. James Bond.
Bond. James Bond…

[09:42]
Un altro aspetto positivo del fare attenzione a come diciamo le cose e alla musica che facciamo mentre parliamo è che, se è vero che un’intonazione sbagliata può minare la nostra credibilità, è anche vero il contrario, cioè che la giusta intonazione può salvarci anche quando stiamo dicendo cose inesatte o – in casi estremi – completamente senza senso.
Immagina di partecipare a una conferenza accademica di alto livello, con esperti in psicologia e psichiatria da tutto il mondo. A un certo punto prende la parola il dottor Fox, che inizia a fare un discorso completamente privo di senso, pieno di parole inventate e di ragionamenti che non vanno da nessuna parte. Alla fine del suo discorso scrosciano gli applausi, il pubblico è entusiasta e quello che diranno del professore è che si è trattato di un’esperienza intellettualmente indimenticabile. 

Questo è l’esperimento condotto negli anni 70 da tre ricercatori invitando a una conferenza un attore, Michael Fox, che avrebbe dovuto impersonare un esperto, il dottor Myron L. Fox.
I ricercatori avevano dato a questo attore un testo senza senso, istruendolo però sul modo in cui avrebbe dovuto pronunciare quel discorso, con un gergo tecnico completamente inventato, ma soprattutto con un tono di voce variegato, con entusiasmo, con umorismo. Il risultato è che nonostante il contenuto fosse completamente privo di valore, i partecipanti avevano valutato la lezione come altamente efficace e avevano attribuito al relatore un livello altissimo di competenza. Questo esperimento era stato condotto per tre volte davanti a tre pubblici diversi e in tutti i casi l’accoglienza era sempre stata favorevole. E nessuno tra i membri dei tre pubblici diversi ai quali era stato somministrato questo esperimento aveva mai avuto il sentore che ci fosse qualcosa di sbagliato nel discorso del dottor Fox. 

Ascoltiamo allora un piccolo estratto della conferenza. L’argomento della conferenza era niente meno che la teoria dei giochi applicata all’educazione in campo medico. Sentirei che la registrazione ha una qualità molto bassa, ma così come per l’esempio dell’imprenditrice, ci importa poco qui capire le parole, tanto più che in questo caso poi il discorso non ha nessun senso. Quello che ci interessa è la musica. 
Che tipo di intonazione ha il dottor Fox?

“I’d like to start today by getting into the applicability of game theory in the field of medicine. in the field of teaching. Now, when Lamoyman and Morgenstern started with game theory, it was not long before they realized that game theory was not primarily concerned with disclosing the optimum strategy. What it really is concentrating on is concerned with the logic of…”
Come senti, il modo di parlare del cosiddetto dottor Fox è anzitutto molto vario dal punto di vista ritmico, cioè ci sono dei passaggi in cui va più veloce, dei passaggi invece in cui si concentra più lentamente su quello che sta dicendo. Anche il tono varia, ma non va mai in uptalk.
Il risultato è una voce ferma e autorevole che raggiunge l’equilibrio perfetto tra calore umano e competenza che poi è la cifra di tutti i grandi oratori.

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Ma oltre ad essere fondamentali per dare una certa impressione di te, le intonazioni ti servono anche per un altro scopo molto pratico, e cioè capire quando puoi prendere la parola. Facci caso: quando parli con una persona inconsapevolmente aspetti che quella persona arrivi a una cadenza che ti dia un senso di conclusione prima di dire la tua. Anche qui è solo questione di musica, non di parole, perché non puoi sapere quando il ragionamento del tuo interlocutore è davvero finito, non sei nella sua testa, però puoi ascoltare la musica che fa. 
Facciamo un esempio pratico. Immagina che siamo uno davanti all’altra e che stiamo parlando del più e del meno. In questo momento sto parlando io e a un certo punto inizio a esprimermi usando queste intonazioni che restano sempre in sospeso senza mai cadere giù ma continuando al contrario a tenermi sul livello di tensione che di fatto ti impedisce di intervenire perché finché mantengo questo tono daresti l’impressione che mi stai interrompendo se cominciassi a parlare e nota bene che non ho bisogno di parlare velocemente per riempire tutti gli spazi perché perfino in presenza di pause più o meno lunghe… di silenzi teatrali… non inizieresti a parlare, mentre se vuoi rispettare il tuo turno di parola dovrai aspettare che la mia intonazione, magari dopo lunghi e noiosissimi giri, finalmente inciampi e cada. 

Ma per quanto tempo è umanamente possibile tenere in sospeso il tono di voce prima di arrivare alla cadenza conclusiva? Beh, dipende.
Se sei Georges Perec, per esempio, per molto molto tempo. C’è un racconto di Perec che si intitola L’arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento di stipendio. Ed è un racconto formato da un’unica, lunghissima frase, che dura per 69 pagine, senza mai usare virgole né punto.
E quindi mentre leggi quest’unica lunghissima frase puoi immaginare che il narratore usi tutte le intonazioni possibili tranne quella conclusiva, e che se ti trovassi a parlare con una persona del genere il tuo turno di parola probabilmente non arriverebbe mai. Ti leggo la prima pagina del racconto tanto per darti un’idea.
Dopo aver riflettuto a lungo dopo aver preso il coraggio a due mani ti decidi ad andare dal tuo capo ufficio per chiedergli un aumento e così vai dal tuo capo ufficio diciamo per semplificare perché bisogna sempre semplificare che si chiama Monsieur Xavier Cioè Messier, o meglio Mr X così vai da Mr X e qui delle due l’una oMr X è in ufficio o Mr X non è in ufficio se Mr X fosse in ufficio apparentemente non ci sarebbe nessun problema ma ovviamente Mr X non è in ufficio e così ti rimane solo una cosa da fare appostarti nel corridoio in attesa del suo ritorno o arrivo ma supponiamo non che non arrivi perché in quel caso ti rimarrebbe un’unica soluzione tornare in ufficio e aspettare il pomeriggio o il giorno dopo per provarci di nuovo supponiamo invece che lui tardi a rientrare fatto che si verifica tutti i giorni In quel caso, piuttosto che continuare a camminare su e giù per il corridoio la cosa migliore da fare è andare a trovare la tua collega Mademoiselle Ypsilon che per dare un tocco d’umanità alla nostra arida dimostrazione, chiameremo d’ora in poi Mademoiselle Yolande ma delle due l’una o Mademoiselle Yolande è in ufficio o Mademoiselle Yolande non è in ufficio se Mademoiselle Yolande è in ufficio in teoria non c’è nessun problema ma supponiamo che Mademoiselle Yolande…
Come vedi questo flusso ininterrotto serve a seguire l’ansia del protagonista, questa sorta di diagramma di flusso dell’ansia in cui c’è tutto un rincorrersi di ipotesi e controipotesi delle due luna, se è in ufficio, se è in ufficio e tutto questo non trova mai il riposo di un punto.

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Ma, al di là dell’ansia: non so se ti è mai capitata una situazione del genere, cioè una situazione in cui il tuo interlocutore continua a parlare senza mai arrivare alla conclusione, senza mai darti il sollievo della cadenza di conclusione e non ti molla per un tempo straordinario.
A me è successo la scorsa estate in una chiesa in cui ho trovato una signora che dal nulla ha iniziato a raccontarmi della sua vita e in particolare delle vicende di salute del suo prete di riferimento. Io ho il memo vocale facile, cioè registro spesso sul telefono quello che mi succede intorno, quindi quando ho capito che le cose sarebbero andate per le lunghe e che il racconto della signora sarebbe durato anni, ho iniziato a registrarlo. E come puoi sentire anche da questi brevi frammenti? Il tono della signora segue esattamente quello che abbiamo detto finora, cioè non va mai giù e ti impedisce di entrare nel discorso magari per accomiatarti, per dire “beh, si è fatta una certa”. Non c’è proprio nessuna feritoia nelle intonazioni della signora per inserirsi in qualche modo, se non con brevissimi inserti del tipo “eh certo, eh beh”.

E io ero ammirata dai parenti della sorella per questo fatto, e dagli amici di lui. Dice “Rina, quello che fai te è una cosa incredibile”. Allora un giorno lo chiamano, perché lui mi si doveva operare, e lo chiamano dal “Policlinico Umberto I….

Questo promemoria dura 5 minuti e 31, quindi 5 minuti e 31 di monologo ininterrotto, che è solo la parte che ho registrato io peraltro, e nei miei memo vocali questa registrazione si intitola La faccio breve, perché era un intercalare della signora che ogni tanto diceva “La faccio breve”, come a dire “avrei potuto raccontarti molto di più, ma mi limito ai momenti salienti”.
Arriva il giorno dell’operazione, la faccio breve. Il dottore gli misurano il diabete 300. Ma si può operare un paziente con 300 di diabete? Io perché mi sono fatta gli affari miei e non ho chiamato il nostro diabetologo. Guarda, dobbiamo operare subito, se no lei rischia di infarto. Io ho cominciato a piangere… quando sono uscita dalla stanza, c’erano i parenti, in sala…

Tutto questo per dire che, per carità, Georges Perec, bravissimo e tutto quanto, ma ci sono delle persone che possono rivaleggiare con lui e con tutta l’Oulipo messa insieme. Basta soltanto metterle alla prova, basta soltanto che abbiano l’opportunità di parlare, magari in un pomeriggio d’estate in una chiesa.

Promemoria iPhone

[21:01]
A proposito di mettere punti e virgole, o di non metterle, un aspetto che chiarisce subito quanto la musica si avvicina al modo in cui parliamo tutti i giorni è proprio la terminologia. Cioè che tu parli di scrivere un discorso o di comporre un pezzo musicale, userai molto spesso gli stessi termini. Brano, tanto per cominciare, che sia un brano musicale o un brano di testo, ma anche frase, ritmo, tema, nel senso di tema musicale oppure di argomento, composizione, e poi si parla di regole di composizione in entrambi i casi e di struttura del brano. Per questo, già fin dal Settecento, i teorici musicali iniziarono a parlare esplicitamente del fatto che le cadenze in musica sono proprio il corrispettivo del punto o della virgola o dei due punti in un testo. Per esempio, la prima cadenza che hai sentito in questo episodio si chiama cadenza sospesa. E non c’è bisogno di spiegare perché. Il suo grado di sospensione è chiarissimo. È come usare i due punti in un testo scritto.
Proprio come dire “Guarda, devo dirti una cosa importantissima”. Due punti. Non potresti mai fermarti qui. Anzi, siamo proprio all’inizio della parte importante del discorso. Ecco, la cadenza sospesa ha proprio questo ruolo all’interno del discorso musicale. Mentre se dovessimo dare un corrispettivo del punto in musica diremmo sicuramente la cadenza autentica.
La cadenza autentica è quella che più di ogni altra ti dà l’idea di conclusione, di “siamo arrivati alla fine della storia”. E anche in questo caso bastano solo i due accordi. Il primo che crea tensione e il secondo che la rilascia.

Tutti in piedi, pubblico in delirio, andiamo a Berlino.
Proprio per questo suo carattere conclusivo, la cadenza autentica è quella che trovi molto spesso nel finale di un brano, di qualunque genere musicale. Ed è anche il motivo per cui alla fine di un brano non c’è mai bisogno di qualcuno che ti dica ora il brano è concluso. Non abbiamo bisogno di qualcuno che ci informi che una certa canzone è arrivata alla fine o che la sinfonia è finita, lo capiamo da noi, e lo capiamo per una serie di dispositivi per esempio può esserci un rallentamento del tempo un cambiamento di strumentazione eccetera ma soprattutto per questa qualità intrinseca nella musica che al di là delle esecuzioni trovi già proprio nelle note.
E questo è il motivo per cui queste due cadenze, sospesa e autentica, sono spesso usate insieme per dare chiarezza al discorso musicale, ma soprattutto per spingere avanti il racconto.

[23:55]
Uno degli esempi più luminosi a riguardo è quello che succede nel tema dell’inno alla gioia del finale della Nona Sinfonia di Beethoven.
[Musica]
Qui senti che c’è una stessa frase che si ripete due volte in maniera praticamente identica. Ma alla fine della prima frase hai una cadenza sospesa. Eccola la cadenza sospesa. Potremmo mai fermarci qui? No, la cadenza sospesa ci spinge verso la seconda frase. E con questa cadenza autentica capiamo che adesso il pensiero musicale è finito.
Di cadenze ne esistono tante altre, ma qui vorrei farti soffermare solo su altre due. La prima ci fa capire come il linguaggio musicale sia pieno di sfumature e che per esempio esistono diversi gradi di conclusione, quello definitivo legato alla cadenza autentica che abbiamo ascoltato finora e quello meno definitivo legato ad un’altra cadenza che si chiama plagale e che suona così.
Senti che qui non c’è una conclusione così definitiva come quella che abbiamo sentito prima, con la cadenza autentica hai mentre qui un senso di conclusione più dolce, che è sicuramente qualcosa che puoi trovare anche alla fine di un brano, ma molto spesso è qualcosa che troverai come un senso di pausa, di riposo, ma momentaneo, in attesa di ricominciare.
Per esempio alla fine di una strofa, che all’interno di un brano rappresenta sì un momento di conclusione, ma non il momento finale.

È quello che succede alla fine di ogni strofa di Let it Be, per esempio.

[Musica]

Con questa, che è la cadenza plagale, e che infatti troviamo alla fine di ogni strofa della canzone cioè in un momento in cui abbiamo una pausa ma ci aspettiamo che il discorso ricominci.
Un altro aspetto interessante della cadenza plagale è questo senso di dolcezza e di pace che deriva dalle sue origini, perché la cadenza plagale era spesso usata nei canti liturgici e nell’inni del momento dell’amen, cioè della fine di una preghiera. E questo è il motivo per cui si chiama anche Cadenza dell’Amen. Per cui l’avremo sentita in migliaia di brani pop e rock, l’avremo cantata a squarciagolla negli stadi, ma in origine era pur sempre…
[Musica]

[27:28]
A questo punto però resta una domanda, abbiamo visto che con le cadenze sia mentre parliamo che mentre facciamo musica diamo il senso di una sospensione o di una conclusione a seconda di quello che vogliamo dire o di come vogliamo raccontare una storia, ma il punto è perché abbiamo così bisogno di un senso di conclusione?
Perché per esempio un brano di musica non può interrompersi in un posto qualunque della musica? Perché non può semplicemente smettere, ma deve finire in un modo che ci dia il senso della fine? E perché succede lo stesso per qualunque storia, che sia una storia che stiamo leggendo in un romanzo, o che stiamo raccontando a un amico, o che stiamo vedendo in un film? Cioè non ci accontentiamo che la narrazione smetta in un punto qualunque ma abbiamo bisogno di un finale vero e proprio di qualcosa che ci dia un senso di conclusione e se il finale non ci soddisfa cioè non ci dà quel senso pieno di conclusione restiamo insoddisfatti.

Prima di continuare ti ricordo che Sonar è un progetto gratuito che nasce dal mio corso online di musica da film. Nella descrizione del podcast trovi il link alla pagina del corso di musica e da lì puoi seguire gratis tre ore di lezioni pratiche su composizione musicale e strumenti virtuali. E adesso continuiamo con Sonar.

Una risposta a questo bisogno di un finale si trova in un saggio pubblicato negli anni Sessanta che si intitola proprio The Sense of an Ending, in italiano Il senso della fine, che è un saggio nel quale Frank Kermode, un critico letterario, spiega che noi esseri umani usiamo la narrazione per interpretare la nostra vita in modo che abbia significato. La vita di un essere umano, cioè, è composta da una serie di episodi che se li vedi uno dietro l’altro non hanno molto senso. Pensa anche solo se dovessi mettere in fila tutto quello che ti succede in una giornata. Mi sveglio a una certa ora, poi mi faccio un caffè, poi mi faccio una doccia, poi mi vesto, poi vado ad aspettare l’autobus, poi vado in ufficio. Una serie di fatti uno dopo l’altro, ma non è così che racconteresti la tua giornata a un tuo amico, più probabilmente la racconteresti prendendo una selezione di eventi e collegandoli tra loro in modo che formino un racconto, ed è questo racconto che ti dà il senso della giornata. Una cosa tipo, “Già la mattina era iniziata male perché non ho sentito la sveglia, quindi ho dovuto fare tutto di corsa. Poi ho perso l’autobus, poi sono andata in ufficio, il capo ufficio era più nervoso del solito. Capisci che a fine giornata sono proprio esausta.”
In questo modo ti ho spiegato una serie di eventi non come fosse un verbale di quello che è accaduto, ma sotto forma di un racconto che dà senso a quello che ti ho detto verso una direzione, in questo caso che sono stanchissima. E così in scala ci comportiamo allo stesso modo per il racconto della nostra vita.
Selezioniamo degli eventi dell’infanzia, della giovinezza, della maturità che spieghino perché siamo fatti in un certo modo o perché abbiamo preso certe decisioni. Ora questa narrazione deve avere necessariamente per avere senso come narrazione un inizio, una parte centrale e una fine e la parte finale è veramente fondamentale perché è quella che a ritroso ti spiega tutto il senso della storia precedente. Un po’ come il finale del Sesto Senso, è quando scopri chi è veramente Bruce Willis che ripercorre a ritroso tutte le scene precedenti e quelle scene assumono per la prima volta il loro vero significato. Insomma, per Kermod la fine è qualcosa che costruiamo nella nostra mente per dare un senso al tempo, per farci percepire la nostra esistenza come ordinata, con una sua direzione, e non come una semplice serie di eventi casuali. E questo non è semplicemente un trucco narrativo, ma è una vera e propria strategia di sopravvivenza psicologica per mettere ordine nel caos. A questo bisogno, per esempio, danno risposta alle religioni, che tipicamente inquadrano l’esperienza che stiamo vivendo oggi in relazione ad una fine, il giudizio universale o la vita ultraterrena. E in questo modo danno significato al caos delle nostre vite, perché lo fanno rientrare all’interno di una trama più grande, il cui finale, per esempio la vita ultraterrena, darà significato all’esistenza che stiamo vivendo oggi.

[31:33]
E questo bisogno di dare un finale non è qualcosa che avviene soltanto a livelli così alti come le religioni e il senso della vita, ma è un atteggiamento così istintivo che lo usiamo continuamente anche per i fatti più banali. Prendi per esempio il ticchettio dell’orologio.
Il tichettio dell’orologio è semplicemente una serie di suoni uno dopo l’altro, eppure perfino questa serie di suoni abbiamo bisogno di organizzarla, per cui non sentiamo semplicemente un tichettio, poi un altro tichettio, poi un altro tichettio, no, lo organizziamo a coppie, in modo che ci sia un inizio e una fine.
Ed è per questo che usiamo due nomi differenti per lo stesso suono. Un inizio e una fine. Un inizio e una fine. Il tic – dice scherzando Kermod – è un’umile genesi, il toc una debole apocalisse. 
E probabilmente ti sarà anche capitato di avere davanti un orologio che aveva i tic e i toc uguali, ma che il tuo cervello abbia istintivamente organizzato in modo che il tic fosse più acuto e il toc più grave. Perché è così che ci immaginiamo una cadenza che dà il senso di conclusione.
L’aspetto più importante della teoria di Kermod è che è molto più di una semplice teoria di critica letteraria.
Il suo saggio viene pubblicato nel 1967 e circa dieci anni dopo Michael Gazzaniga, uno dei pionieri delle neuroscienze cognitive, scopre che nel lobo temporale sinistro del nostro cervello esiste una regione che ha proprio il compito di creare delle narrazioni coerenti a partire da informazioni frammentarie. Gazzaniga chiama quest’area del cervello l’interprete perché quest’area non si limita a registrare quello che succede, ma ci costruisce su delle spiegazioni coerenti, un nesso di causalità, un prima e un dopo. E proprio come il tic toc dell’orologio, lo fa anche quando abbiamo dati che in realtà non sono collegati tra loro. Anche in questi casi il nostro interprete preferirà stabilire un legame, per quanto illusorio, anziché registrare due eventi casuali come due eventi casuali.
Pensa a quello che succede con la superstizione. È confortante credere che se indosso sempre la stessa maglietta, la mia squadra vincerà, anche se i due eventi in realtà non sono collegati. Collegare gli eventi tra di loro ci dà l’impressione di poterli capire e magari controllare, mentre il caos, la mancanza di una ragione, ci fa paura.
Oggi i neuroscienziati tendono a vedere questo meccanismo in modo più complesso, e cioè non si tratta di una singola area cerebrale o di un piccolo narratore che abita nella nostra mente, ma piuttosto di una rete diffusa di processi che coinvolge linguaggio, memoria, emozione, previsioni. Tutti insieme questi processi collaborano per dare coerenza a ciò che viviamo.
Ma Gazzaniga aveva colto un’intuizione profonda, e cioè che la mente umana non sopporta il caso e ha bisogno di una trama. E questa funzione non si limita a mettere in ordine e a trovare un significato nel caos delle nostre vite, ma facendo questo ci permette anche di mantenere un senso di identità. Grazie a questa funzione di narrazione possiamo vedere noi stessi come un soggetto unitario e coerente nel tempo. Cioè, quando ci descriviamo in un certo modo «sono una persona calma», «non sono gelosa», oppure «amo il rischio», l’interprete seleziona i nostri ricordi che sono coerenti con quella definizione, ignorando quelli che la contraddicono. E in questo modo proteggiamo una narrazione stabile di noi stessi, anche se la realtà psicologica è molto più fluida e variabile. In pratica ci raccontiamo come personaggi di un romanzo coerente, anche se le scene tagliate del film potrebbero raccontare altro.
In sintesi, questo processo di narrazione è il meccanismo cerebrale che spiega a livello cognitivo quello che Kermod aveva descritto a livello culturale, e cioè la tendenza a immaginare la nostra vita come una storia, con un senso, un arco narrativo e un finale.

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E a proposito di finale, anche noi dovremmo avvicinarci al finale di questo episodio prima o poi, ma prima vorrei darti un aspetto più generale delle cadenze. Tradizionalmente le cadenze indicavano, come abbiamo detto, il modo in cui la musica cadeva alla fine della frase. Col tempo però, per cadenza, si è passato ad indicare anche una successione di accordi, tipicamente sempre di due accordi, che però può succedere in un momento qualunque del brano, anche non alla fine di una frase, e che può entrare a far parte di una progressione, cioè di una catena più lunga di accordi. Quindi invece di avere soltanto questi due accordi alla fine della frase, li prendi, li metti all’interno di una catena più lunga di accordi e quella diventa la struttura armonica di un brano.
Nella pratica questo dispositivo è essenziale per la musica da film. Comporre musica da film, infatti, ha un grado di difficoltà ulteriore rispetto a comporre una canzone o una sinfonia, perché tutto quello che componi deve servire alle immagini e dipende completamente dalle immagini, cioè da quello che succede nel film, nella pubblicità, nel video in generale. Quindi, tranne in rarissime eccezioni, il compositore di musica da film non decide in autonomia quando un brano inizia, come si sviluppa, quando finisce, ma tutto dipende dal video che gli consegnano e che deve musicare. Questo significa che le emozioni del brano, il ritmo, i tempi sono interamente dettati dal video.
E questa è la sfida meravigliosa di comporre musica per immagini, cioè riuscire a esprimere la propria creatività nonostante e grazie a questi limiti. Ora, visto che sono le immagini e le indicazioni del regista che decidono quando la musica entra, quanto dura e che emozione deve esprimere, il problema più grande per un compositore di musica da film è che alle volte hai pochissimo tempo per suggerire un’emozione, per creare un’atmosfera. Magari le immagini ti lasciano solo sei secondi e in quei sei secondi devi riuscire a scrivere qualcosa che suggerisca l’avventura, oppure la perdita, oppure il senso di attesa.
Ed è qui che arrivano in aiuto le cadenze. Proprio perché sono formate tipicamente soltanto da due accordi, le cadenze hanno la capacità di suggerire immediatamente una certa emozione e quindi per un compositore di musica da film sono una manna dal cielo, Puoi pensare a questo modo di usare le cadenze come ad una sorta di archivio nel quale cercare quale cadenza è legata a una particolare emozione e di farne la base del tuo brano, la base armonica, gli accordi. 
Poi ovviamente c’è bisogno di tutto lavoro per costruirci attorno un vero e proprio brano musicale, cioè a questa progressione dovrai dare un ritmo preciso, dovrai associare una strumentazione.
Su questa progressione andrà scritta una melodia e così via, ma l’importante è avere questo punto di partenza che è come avere un binario che è già diretto verso una destinazione particolare. E la destinazione è l’atmosfera che vuoi creare. Come al solito, vediamo meglio con un esempio pratico.
L’ultima cadenza di cui ti parlo oggi si chiama cadenza sospesa sottotonica dominante. Che detta così capisco che possa sembrare qualcosa di incredibilmente difficile. In realtà il grande vantaggio dei termini tecnici nella teoria musicale è che sono una sorta di ricetta per ottenere subito il risultato al quale si riferiscono. E se passi questa definizione, “cadenza sospesa sotto tonica dominante”, a un musicista che abbia anche solo una formazione armonica di base, questo musicista capirà immediatamente che cosa ti serve. E la traduzione immediata di questa definizione sono questi due accordi.

Ora, in sé questi due accordi non mi sembra che suggeriscano qualche tipo di emozione o di atmosfera, ma si tratta di lavorarci un po’ su. In particolare questa cadenza è legata a moltissime colonne sonore di film western e per quanto gli accordi che abbiamo appena sentito apparentemente non abbiano niente a che fare con i cowboy, in realtà in soli tre passi puoi raggiungere subito qualcosa che si avvicina molto al risultato che vuoi ottenere.
Prendi i due accordi della cadenza
Li metti in staccato per dare un senso di energia. 


Ci aggiungi qualcosa all’inizio e alla fine, perché questa è una cadenza sospesa, l’abbiamo chiamata, e basta uno stesso accordo messo sia prima che dopo per dargli un senso di compiutezza. 


A questo punto se scegli uno strumento che possa suonare al meglio questa progressione, cioè nel modo più vicino possibile al genere di riferimento e all’atmosfera che vuoi creare, in tre passaggi ottieni già qualcosa che comincia effettivamente a suggerire piuttosto da vicino un’atmosfera western e lo fa da subito, in pochi istanti. Ovviamente questa base costruita così velocemente è solo l’inizio di un lungo lavoro per aggiungerci una parte ritmica, una melodia, magari altre linee di contrappunto. Ma quello che ti ha regalato la cadenza iniziale è quel movimento armonico che ti ha dato un binario sicuro da cui partire.
E per quanto complesso risulterà il brano finale, continuerai a sentire che dentro è sempre quella progressione che porta avanti tutto.
[Musica]

[43:11]
Con quest’ultimo aspetto delle cadenze chiudiamo il cerchio dell’episodio, tornando alle intonazioni che usiamo quando parliamo. Perché se è vero che le cadenze in musica servono non solo a far capire che una frase è finita o no, ma anche a creare delle atmosfere, può essere vero lo stesso per le intonazioni? Possiamo evocare un’emozione indipendentemente dalle nostre parole, semplicemente con la musica che facciamo mentre parliamo? È possibile sì.
Pensa a quei casi in cui la stessa identica frase ha due significati completamente diversi a seconda dell’intonazione con cui la pronunci. Per esempio, se dico “sai che ore sono?” Una domanda tranquillissima, significa che non so che ore siano e che te lo sto chiedendo. Ma se dico “Sai che ore sono”, ecco che qui l’atmosfera si fa molto diversa e con questo semplice cambio di musica sto dicendo qualcosa di completamente diverso, sto dicendo che io so benissimo che ore siano, che so che tu lo sai e che probabilmente ci aspetta una serata difficile.



Sai che ore sono. Sai quanto ci tenevo a vedere questo film e quello che significa per me. Sai benissimo quanto è stata dura questa settimana e quanto avevo bisogno di rilassarmi. Ma tu non pensi a me o a quello che mi fa stare bene, no. Tu pensi solo a giocare a padel e a mettere like alle maleducate su Instagram. Io veramente comincio a pensare che la nostra relazione sia basata su una serie di schemi sbagliati per cui tu da una parte fai esattamente tutto secondo i tuoi piani, mentre io d’altra parte…

[44:52]
In questo episodio di Sonar abbiamo visto che quando parliamo spesso diamo più informazioni di quante pensiamo. Oltre al contenuto delle parole parliamo anche del nostro senso di sicurezza, delle nostre emozioni, di come vogliamo interagire con gli altri e tutto questo ha dei legami fortissimi col modo in cui facciamo musica. D’altra parte, in entrambi i casi raccontiamo delle storie, per plasmare il tempo e dare senso alle nostre vite. E nella stragrande maggioranza dei casi facciamo tutto questo senza bisogno che qualcuno ce lo insegni esplicitamente. Riconosciamo subito il senso di sospensione in musica così come distinguiamo subito un tono sereno da uno polemico.
E questa è la prova di quante cose sappiamo della musica, delle intonazioni, dell’aspetto sonoro della nostra vita anche se non sappiamo di saperle. Che poi è l’argomento di questo podcast.

Sonar, storie di suoni, è un podcast di musica digitale, il sito dedicato alla musica e alle colonne sonore. Se questo episodio ti è piaciuto, fallo girare e condividilo.
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Grazie per aver ascoltato fin qui. A presto!

BIBLIOGRAFIA

  • Cadence: A Study of Closure in Tonal Music, William E. Caplin, OUP USA, 2025
  • Vocal Fry, Uptalk, and Other Speaking Habits That Undermine Authority in Interviews, James Soloman, 20 Maggio 2025, Pacific Executive Search
  • What’s up with Upspeak?, Robin T. Lakoff, UC Berkeley Social Science
  • The Uptalk Downgrade, Emma Tailor Wollum, Victoria University of Wellington
  • Cues: Master the Secret Language of Charismatic Communication, Vanessa Van Edwards, Portfolio, 2022
  • The Sense of an Ending: Studies in the Theory of Fiction, Frank Kermode, Oxford University Press
  • The Social Brain. Discovering the Networks of the Mind. Michael Gazzaniga, Basic Books.
Susanna Quagliariello Laurea in Storia e Critica del Cinema, master di Alta Formazione in Comunicazione, licenza triennale al Conservatorio, certificazione specialistica di Composizione e Orchestrazione per Musica da Film. Susanna è amministratore di VFX Wizard srl e direttore di ACD, l’Accademia di Cinematografia Digitale™.

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